venerdì 3 aprile 2009

Prospettive rivoluzionarie nel XXI secolo

di Domenico Losurdo
(pubblicato in lingua portoghese in «Alentejo popular» del 12 marzo 2009, pp. 8-11)


Nel 1938 Trotskij fondava la Quarta internazionale a partire da un presupposto: come nel corso del primo conflitto mondiale, così nel corso del secondo conflitto mondiale che ormai si profilava si sarebbe verificata la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria e ne sarebbe derivata un’ondata rivoluzionaria ancora più gigantesca di quella che aveva segnato la nascita della Russia sovietica. In effetti, un’ondata rivoluzionaria scuoteva l’intero pianeta ma si sviluppava secondo modalità diverse e contrapposte, a partire da guerre di resistenza e liberazione nazionale contro l’imperialismo: ciò non valeva solo per l’Unione Sovietica impegnata nella Grande guerra patriottica o per la Cina, o per la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, l’Albania; anche per paesi capitalistici più o meno avanzati quali la Grecia, l’Italia, la Francia, la rivoluzione si sviluppava come guerra di liberazione nazionale diretta dal partito comunista. In realtà, contrariamente alle previsioni di Trotskij, la nascita della Russia sovietica e l’impulso da essa fornita al movimento anticolonialista e sul versante opposto l’emergere del Terzo Reich impegnato a riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, facendola valere nella stessa Europa orientale, in sintesi proprio le novità emerse a partire dall’ottobre 1917 rendevano impossibile la ripetizione dello scenario della prima guerra mondiale.
Nel 1952, un anno prima della sua morte, Stalin faceva anche lui una previsione: sconfitti nel 1945, Germania e Giappone non avrebbero subito per sempre l’egemonia degli Stati Uniti; sarebbero scoppiate nuove violente contraddizioni interimperialiste, e ciò sarebbe stata l’occasione per un nuovo e forse decisivo ampliamento del campo socialista. Si sarebbe cioè verificato uno scenario simile a quello della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale, la quale ultima, prima di coinvolgere l’Unione Sovetica, aveva visto scontrarsi solo paesi capitalistici. Com’è noto, le cose sono andate in direzione esattamente contrapposta: la forza del campo socialista e la paura della sua estensione hanno contribuito al compattamento dell’imperialismo, mentre è stato proprio il campo socialista che, non riuscendo a risolvere il problema nuovo del rapporto tra paesi socialisti, ha conosciuto contraddizioni aspre e persino violente al suo interno e infine è andato incontro alla sua dissoluzione.
Infine. Nel 1965 da Pechino Lin Piao faceva una terza previsione: la dialettica che aveva promosso la vittoria della rivoluzione in Cina, e cioè l’accerchiamento della città a partire dalla campagna, si sarebbe manifestata anche a livello planetario. La vittoria in Asia, Africa, America Latina delle rivoluzioni anticoloniali dirette da partiti comunisti avrebbe progressivamente accerchiato la metropoli capitalista e imperialista, finché questa stessa avrebbe finito col crollare. In realtà, nel 1928 Mao aveva charito che a rendere possibile la costruzione del «potere rosso» nelle campagne cinesi erano «le contraddizioni e la lotta fra gli Stati imperialisti». Proprio la vittoria della rivoluzione cinese e di altre rivoluzioni anticoloniali spingeva i paesi capitalisti ad accantonare in una certa misura le loro rivalità e a compattarsi sotto la guida degli Stati Uniti. Sicché, tra il 1989 e il 1991 non era la campagna socialista ad accerchiare la metropoli capitalista e imperialista, era al contrario la metropoli capitalista e imperialista ad accerchiare paesi quali Cuba, il Vietnam e la Cina.
In conclusione, ogni volta che si è abbandonato al gioco delle analogie, il movimento comunista è andato incontro a cocenti delusioni o a vere proprie catastrofi. E’ necessario invece, per dirla con Lenin, procedere ad un’«analisi concreta della situazione concreta». A questa lezione occorre ispirarsi, allorché ci interroghiamo sulle prospettive della rivoluzione nel XXI secolo. La situazione è radicalmente mutata rispetto al passato. Sull’onda del fallimento del progetto hitleriano di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, individuando nell’Europa orientale il Far West da colonizzare e germanizzare, sull’onda di Stalingrado e della disfatta inflitta al nazifascismo, subito dopo la seconda guerra mondiale si sviluppava una rivoluzione anticolonialista di dimensioni planetarie. Ad essere scosse non erano solo le colonie propriamente dette. In paesi come gli Stati Uniti e il Sudafrica i popoli di origine coloniale si ribellavano contro lo Stato razziale e il regime di white supremacy. Prima ancora che trovare espressione cosciente nei partiti e nelle forze di sinistra, l’internazionalismo era nei fatti: esso abbracciava i popoli coloniali e di origine coloniale, i paesi socialisti che appoggiavano la rivoluzione anticolonialista e antirazzista, le masse popolari dell’Occidente che si erano scosse di dosso il giogo del fascismo e che talvolta, ad esempio in Italia, erano riuscite a sancire nella stessa Costituzione il rifiuto della guerra e della politica di guerra e di egemonia.

1. La rivoluzione anticoloniale ieri e oggi

Ebbene, la prima domanda che di dobbiamo porre è questa: che ne è oggi della gigantesca rivoluzione anticoloniale stimolata dalla rivoluzione d’ottobre e accelerata da Stalingrado? No, tale rivoluzione non è dileguata. In una realtà come quella palestinese il colonialismo continua a sussistere nella sua forma classica, come dimostrano l’ininterrotta espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, la conseguente espropriazione, deportazione ed emarginazione del popolo palestinese e il diffondersi di un regime di apartheid. E, tuttavia, nonostante la strapotenza e l’impiego barbarico della macchina da guerra israeliana, sostenuta peraltro dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Europea, nonostante tutto ciò, il popolo palestinese resiste eroicamente.
In altre parti del mondo la lotta tra colonialismo e anticolonialismo si manifesta in forme diverse. Sul continente americano il Novecento si apriva con una significativa dichiarazione di Theodore Roosevelt: alla «società civilizzata» nel suo complesso – egli affermava – spettava un «potere di polizia internazionale», e tale potere gli Stati Uniti l’avrebbero esercitato in America Latina. A partire da questa ripresa e radicalizzazione della dottrina Monroe, non si contano gli interventi militari effettuati dalla repubblica nordamericana a danno dei suoi vicini, considerati estranei al mondo civile e assimilati a barbari bisognosi della tutela imperiale. Sennonché, la dottrina Monroe è caduta radicalmente in crisi a partire da una rivoluzione di cui in questi giorni si è celebrato il cinquantesimo anniversario. Nel corso del mezzo secolo nel frattempo trascorso, ogni mezzo è stato messo in atto per isolare, diffamare. strangolare, liquidare la rivoluzione cubana, ma oggi la sua forza e il suo significato internazionale sono confermati dai mutamenti in atto in paesi quali il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador, il Brasile, il Nicaragua, il Paraguay. Con modalità di volta in volta assai diverse, la rivoluzione anticolonialista e antimperialista è in marcia in America Latina.
Nel corso del Novecento la rivoluzione anticolonialista ha divampato anche in Asia e in Africa. E’ oggi? Per fare il punto della situazione, conviene prendere le mosse da un’osservazione di Frantz Fanon, il grande teorico della rivoluzione algerina. Allorché si sentono costrette a capitolare – scrive Fanon nel 1961– le potenze coloniali sembrano dire ai rivoluzionari: «Giacché volete l’indipendenza, prendetevela e crepate»; in tal modo «l’apoteosi dell’indipendenza si trasforma in maledizione dell’indipendenza». E’ a questa nuova sfida, di carattere non più militare, che occorre saper rispondere: «ci vogliono capitali, tecnici, ingegneri, meccanici, ecc.». D’altro canto, già nel 1949, prima ancora della conquista del potere, Mao aveva insistito sull’importanza dell’edificazione economica: Washington desidera che la Cina si «riduca a vivere della farina americana», finendo così col «diventare una colonia americana». E dunque, senza la vittoria nella lotta per la produzione, agricola e industriale, la vittoria militare era destinata a rivelarsi fragile e inconcludente. In altre parole, Mao e Fanon hanno in qualche modo previsto da un lato lo stallo di tanti paesi africani che non sono riusciti a passare dalla fase militare alla fase economica della rivoluzione, dall’altro la svolta verificatasi in rivoluzioni anticoloniali come quella cinese e vietnamita.

2. La nascita del Terzo Mondo

E’ un punto cruciale sul quale conviene soffermarsi. Chiediamoci in che modo si è formato il Terzo Mondo, lo spazio tradizionalmente oppresso e saccheggiato dall’Occidente colonialista e imperialista. Con una lunga storia alle spalle, che l’aveva vista per secoli o per millenni in posizione eminente nello sviluppo della civiltà umana, ancora nel 1820 la Cina vantava un Pil che costituiva il 32,4% del Prodotto interno lordo mondiale; nel 1949, al momento della sua fondazione, la Repubblica Popolare Cinese era divenuto il paese più povero, o tra i più poveri, del globo. Non molto diversa è la storia dell’India che, sempre nel 1820, contribuiva per il 15, 7% al PIL mondiale, prima di cadere anch’essa in una spaventosa miseria. E cioè, non possiamo comprendere il processo di formazione del Terzo Mondo facendo astrazione dalla politica di saccheggio e di de-industrializzazione condotta dalle potenze colonialiste e imperialiste.
Ma al processo di formazione del Terzo Mondo contribuisce un’altra circostanza. Per comprenderla, dobbiamo far riferimento ad una rivoluzione che alla fine del Settecento si svolge in un paese che oggi si chiama Haiti ma che allora portava il nome di Santo Domingo. E’ una rivoluzione degli schiavi neri che spezzava al tempo stesso le catene del dominio coloniale e dell’istituto della schiavitù: nasceva così sul continente americano il primo paese affrancato dal flagello della schiavitù. A dirigere questo processo di emancipazione era un giacobino nero, Toussaint Louverture, una grande personalità storica per lo più ignorata dai nostri libri di storia ma che in una società democratica dovrebbe figurare obbligatoriamente anche nei libri di educazione civica. Ebbene, dopo la vittoria militare Toussaint Louverture si poneva il problema dell’edificazione economica: a tal fine avrebbe voluto utilizzare anche i tecnici e gli esperti bianchi provenienti dalle file del nemico sconfitto; per questo motivo fu accusato o sospettato di voler restaurare il dominio bianco e di tradire così la rivoluzione. Ne scaturiva una tragedia che ancora oggi ci deve far riflettere. Santo Domingo era un’isola assai ricca, grazie allo zucchero prodotto in piantagioni di ampie dimensioni e di notevole efficienza e largamente esportato. Certo, la ricchezza prodotta dagli schiavi era intascata dai loro padroni. Era possibile per gli ex-schiavi far funzionare a loro profitto l’economia sviluppata da loro ereditata grazie alla rivoluzione? Disgraziatamente, in seguito alla sconfitta della linea di Toussaint Louverture, a Santo-Domingo/Haiti subentrava un’arretrata agricoltura di sussistenza. L’isola conosceva così la miseria generalizzata, ed essa è tuttora uno dei paesi più poveri del globo. In conclusione, a formare il Terzo Mondo sono anche i paesi che non riescono a passare dalla fase militare a quella economica della rivoluzione, i paesi in cui per una ragione o per un’altra la rivoluzione anticoloniale conosce la sconfitta o il fallimento.

3. L’imperialismo e la condanna all’inedia dei popoli ribelli

Non si comprenderebbe nulla della lotta tra colonialismo e anticolonialismo, tra imperialismo e anti-imperialismo, se non si tenesse conto che essa viene condotta anche sul piano economico. Subito dopo la rivoluzione guidata da Toussaint Louverture, Thomas Jefferson dichiarava di voler ridurre all’«inedia» il paese che aveva avuto la sfrontatezza di abolire la schiavitù. Questa medesima vicenda si è riproposta nel Novecento. Già subito dopo l’ottobre 1917, Herbert Hoover, in quel momento alto esponente dell’amministrazione Wilson e più tardi presidente degli Usa, agitava in modo esplicito la minaccia della «fame assoluta» e della «morte per inedia» non solo contro la Russia sovietica ma contro tutti popoli inclini a lasciarsi contagiare dalla rivoluzione bolscevica. E’ una politica che continua ancora oggi: è noto a tutti che l’imperalismo cerca di strangolare economicamente Cuba e possibilmente di ridurla alla condizione di Gaza, dove gli oppressori possono esercitare il loro potere di vita e di morte, prima ancora che coi bombardamenti terroristici, già col controllo delle risorse vitali. Per quanto riguarda la Repubblica Popolare Cinese, agli inizi degli anni ’60 un collaboratore dell’amministrazione Kennedy, e cioè Walt W. Rostow, si vantava per il fatto che gli Stati Uniti erano rusciti a ritardare per «decine di anni» lo sviluppo economico del grande paese asiatico! E contro di esso ancora oggi Washington conduce una politica di embargo tecnologico, quella politica che fino all’ultimo è stata messa in atto ai danni dell’Unione Sovietica.
E, dunque, la solidarietà internazionalista deve rivolgersi anche ai paesi che sono riusciti a passare dalla fase militare alla fase più propriamente economica della rivoluzione anticolonialista e antimperialista. Dell’importanza di questo passaggio di fase sono consapevoli i leaders latino-americani. Per fare solo un esempio, qualche tempo fa, il vice-presidente della Bolivia ha lanciato una parola d’ordine assai significativa: «Industrializzazione o morte!». Agli occhi di Alvaro Garcia Linera si tratta di realizzare «lo smantellamento progressivo della dipendenza economica coloniale». In questa prospettiva diviene importante il crescente scambio commerciale e tecnologico con un paese come la Cina: esso rende meno grave la minaccia di strangolamento economico agitata dall’imperialismo, rende cioè più agevole la lotta contro la dottrina Monroe anche sul piano economico.
Già dunque si delinea una sostanziale convergenza tra i paesi e i popoli protagonisti della rivoluzione anticolonialista e antimperialista. E’ un fronte internazionalista che tende ad allargarsi. Dopo la vittoria conseguita nella guerra fredda, avvalendosi anche della complcità dell’Unione europea, gli Stati Uniti hanno trasformato in semicolonie paesi come l’Albania e territori come il Kossovo. E’ la conferma della tesi da me enunciata, secondo cui, a formare il Terzo mondo e lo spazio coloniale o semicoloniale di cui ha bisogno il capitalismo, sono da un lato l’iniziativa diretta dell’imperialismo dall’altra il fallimento o la sconfitta di determinate rivoluzioni, sia per cause interne sia per l’intervento ancora una volta dell’imperialismo. Non si deve dimenticare che la stessa Russia, dopo la restaurazione del capitalismo, stava diventando o rischiava di diventare una semicolonia. E dunque anche questo paese esprime una resistenza al folle progetto di Washington di imporre il suo dominio a livello mondiale.
Disgraziatamente, a questo fronte anticolonialista e antimperialista che potrebbe costituirsi manca ancora una componente essenziale: esso non gode ancora della piena solidarietà dei movimenti di opposizione che pure si manifestano nell’ambito dei paesi capitalistici avanzati. Come spiegare ciò? Non si tratta di un problema nuovo. Nella Seconda Internazionale non mancavano certo in Europa le voci che giustificavano l’espansionismo coloniale in nome dell’esportazione della civiltà. Oggi l’ideologia dominante preferisce parlare di diritti umani e di lotta contro il l’autoritarismo, il totalitarismo, il fondamentalismo, ma la sostanza colonialista o neocolonialista di tale atteggiamento non cambia.

4. L’imperialismo come nemico principale dei diritti dell’uomo

Per rendersi conto di ciò, non c’è bisogno di rinviare a Marx o a Lenin. Voglio qui prendere le mosse dal discorso pronunciato il 6 gennaio 1941 da Franklin Delano Roosevelt. Nell’invitare a non perdere mai di vista la «supremazia dei diritti umani», accanto alle tradizionali libertà della tradizione liberale (libertà di parola e di espressione nonché di religione) il presidente statunitense teorizza anche la «libertà dal bisogno» (freedom from want) e la «libertà dalla paura» (freedom from fear). Concentriamoci inizialmente su queste ultime due. Ebbene, non solo una parte consistente della popolazione degli Stati Uniti è priva persino di assistenza sanitaria, ma le amministrazioni che si sono succedute negli ultimi tempi a Washington si sono impegnate in una sorta di crociata planetaria per cancellare lo Stato sociale anche in quei paesi in cui è in misura maggiore o minore ancora presente. Allorché invece teorizza la «libertà dalla paura», F. D. Roosevelt prende di mira la Germania nazista, che minacciava di invadere i paesi confinanti e vicini. Oggi sono in primo luogo gli Stati Uniti a fa pesare in ogni angolo del mondo la paura e l’angoscia dei bombardamenti, delle distruzioni su larga scala e persino dell’annientamento nucleare. Al fine di cominciare a realizzare la «libertà dalla paura», in polemica indiretta contro il Terzo Reich, F. D. Roosevelt invocava la «riduzione» degli armamenti. Oggi, gli Stati Uniti da soli spendono in armamenti quanto il resto del mondo assieme. E cioè, almeno per quanto riguarda questi fondamentali «diritti umani» che sono la «libertà dal bisogno» e la «libertà dalla paura», il nemico principale è proprio il paese che si erge a giudice inappellabile della causa dei diritti umani.
Anche se ci concentriamo sui diritti classici della tradizione liberale, il risultato non è molto diverso. Chi, nella primavera del 1999, ha assassinato, bombardandoli dall’alto, i giornalisti televisivi jugoslavi colpevoli di non condividere l’opinione dei vertici e degli ideologi della Nato e di ostinarsi a condannare l’aggressione subita dal loro paese? E quanti sono i giornalisti «accidentalmente» uccisi dal fuoco delle forze di occupazione in Irak o in Palestina? Godono dei «diritti universali di parola e di associazione» gli abitanti di Gaza che, dopo aver votato per Hamas nel corso di libere elezioni, si sono visti condannati prima allo strangolamento economico e al blocco e successivamente a bombardamenti selvaggi e all’invasione? E hanno goduto di questi diritti i detenuti di Abu Ghraib e di Guantanamo? E che ne della rule of law, del governo della legge per i palestinesi uccisi dalle «esecuzioni extragiudiziare» (con ampi «danni collaterali») sovranamente decise dal governo di Washington nella regione pachistana confinante con l’Afghanistan, ovvero dal governo di Tel Aviv (appoggiato da quello di Washington) in Palestina? Infine: gli arabi e gli islamici che negli Usa osano contribuire ad una sottoscrizione a favore della popolazione di Gaza e di Hamas rischiano di essere perseguiti e condannati in quanto «terroristi». Per dirla con Marx, «la profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie» o ai popoli di origine coloniale collocati nella stessa metropoli. In questo caso l’«ipocrisia» e la barbarie» borghese «vanno in giro ignude». Come ha confermato la sorte riservata a Gaza.
Ciò non significa negare che problemi di rispetto dei diritti umani si pongano per i paesi e i popoli impegnati nella rivoluzione anticolonialista e antimperialista e negli stessi paesi che si richiamano al socialismo. E, tuttavia, basta leggere autori quali Madison o Hamilton, per sapere che il governo della legge, la rule of law non può fiorire là dove è presente una minaccia alla sicurezza nazionale. Gridare allo scandalo per l’assenza di democrazia nei paesi sottoposti ad un assedio più o meno pressante sul piano diplomatico, economico e militare è espressione di follia ovvero di cinismo realpolitico. In altre parole, non c’è reale democrazia senza democrazia nei rapporti internazionali, e il principale nemico della democrazia nei rapporti internazionali è costituito da un paese che, per bocca di Clinton come di Bush sr. e jr. e di tanti altri presidenti, pretende di essere la nazione eletta da Dio col compito di guidare e dominare il mondo per l’eternità.
Anche l’odierno «imperialismo dei diritti umani», come giustamente è stato definito, non è qualcosa di totalmente nuovo. Allorché, dopo un’eroica rivoluzione, agli inizi del Novecento Cuba conquista l’indipendenza dalla Spagna, Washington costringe il paese formalmente indipendente ad introdurre nella sua Costituzione il cosiddetto emendamento Platt, in base al quale viene riconosciuto agli Stati Uniti il diritto di intervenire militarmente nell’isola, ogni volta che essi ritengono minacciato nell’isola il tranquillo godimento della proprietà e della libertà. E’ come se oggi gli aspiranti padroni del mondo pretendessero di far valere l’emendamento Platt a livello planetario!
E’ l’«imperialismo dei diritti umani» a rendere debole la sinistra nei paesi capitalistici avanzati.

5. Un nuovo blocco storico a livello internazionale

Agiscono anche altri fattori. In Europa e negli Stati Uniti vivono nuclei importanti di immigrati provenienti dal Medio Oriente e dal mondo arabo e islamico. Essi, che spesso hanno lasciato la loro famiglia alle spalle, soffrono con particolare intensità la tragedia che continua a pesare più che mai sul popolo palestinese. Essi sono in prima fila a manifestare contro il colonialismo e l’imperialismo, contro Israele e gli Stati Uniti, ed è anche per questo, oltre che per la logica interna al capitalismo, che questi immigrati sono sfruttati in modo particolare, emarginati e spesso – in ogni caso negli anni dell’amministraziaone Bush – arrestati arbitrariamente per essere torturati nelle prigioni segrete della Cia. Si impegna a sufficienza la sinistra occidentale per cercare di stabilire un legame stretto e permanente con queste comunità? Volerle trascurare sarebbe come se, negli Stati Uniti della supremazia bianca il partito comunista americano avesse condotto la sua agitazione facendo astrazione dai neri. E invece no. Anche se poi sono stati gravemente indeboliti prima dal terrore maccartista e poi dalla crisi del campo socialista, a lungo i comunisti americani hanno saputo lottare, rischiando la libertà e anche la vita, contro le discriminazioni, le umiliazioni, l’oppressione, i linciaggi scatenati dal regime di white supremacy.
I niggers di cui parlavano con disprezzo i razzisti statunitensi sono oggi in Occidente rappresentati dagli immigrati arabi e islamici; ed essi non si limitano a rivendicare la «libertà dal bisogno»; non intendono in quanto poveri fare appello ad una compassione paternalistica. In primo luogo essi rivendicano ­– per usare un linguaggio filosofico ­– il riconoscimento; essi esigono di essere riconosciuti nella loro dignità umana, nella loro cultura, nelle loro rivendicazioni nazionali, a cominciare dalla rivendicazione nazionale del popolo palestinese, il popolo-martire per eccellenza dei giorni nostri!
E’ solo liquidando in modo completo l’influenza dell’«imperialismo dei diritti umani» e dell’islamofobia (che ha preso il posto ai giorni nostri del tradizionale flagello razzista), è solo agendo in tal modo che il movimento di opposizione presente nei paesi capitalistici avanzati potrà dare un reale contributo alla lotta contro la reazione.
Ci troviamo oggi in una situazione, che per un verso non è priva di prospettive positive e incraggianti: 1. sull’onda della lotta anti-imperialista risorgono popoli e civiltà che erano stati annientate dal colonalismo: si pensi al ruolo crescente degli indios in America Latina; 2. il prodigioso sviluppo di un paese come la Cina spezza il monopolio tecnologico detenuto dall’imperialismo. Quella che gli storici chiamano la «grande divaricazione», per cui a un certo punto un abisso si è aperto tra paesi capitalistici avanzati e Terzo Mondo, questa «great divergence» tende a ridursi; 3. la presa di coscienza della crisi del capitalismo ridà slancio alla prospettiva del socialismo oltre che nel terzo Mondo, anche nei paesi capitalistici avanzati. Per un altro verso vediamo il paese-guida del capitalismo immerso sì in una profonda crisi economica e sempre più screditato a livello internazionale; al tempo stesso esso continua ad aggrapparsi all pretesa di essere il popolo eletto da Dio e ad accrescere febbrilmente il suo già mostruoso apparato di guerra e ad estendere la sua rete di basi militari in ogni angolo del mondo. Tutto ciò non promette nulla di buono. E’ la compresenza di prospettive promettenti e di minacce terribili a rendere urgente la costruzione a livello internazionale di un nuovo blocco storico, per usare il linguaggio di Gramsci. Non è un’impresa facile perché si tratta di saldare assieme forze collocate in contesti storico-culturali e in situazioni politiche e geopolitiche assai diverse. E questo nuovo blocco storico, che solo può dare nuovo slancio all’internazionalismo, potrà essere costruito solo se i partiti comunisti, anche quelli dei paesi capitalistici avanzati, da un lato recuperano l’orgoglio della propria storia, dall’altro rafforzano la loro capacità di analisi concreta della situazione concreta.



Riferimenti bibliografici

Frantz Fanon, Les damnés de la terre (1961), tr. it., di Carlo Cignetti, I dannati della terra, pref. di Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino, II ed., 1967, pp. 55-58.

Alvaro Garcia Linera in un’intervista a Pablo Stefanoni, in «il manifesto» del 22 luglio 2006, p. 3.

Mao Tsetung, Perché può esistere in Cina il potere rosso? (5 ottobre 1928), in Opere scelte, Edizioni in lingue estere, Pechino, 1969-75, vol. 1, p. 61.
Mao Tsetung, Il fallimento della concezione idealistica della storia (16 settembre 1949), in Opere scelte, Edizioni in lingue estere, Pechino, 1969-75, vol. 4, p. 467.

Karl Marx-Friedrich Engels, Werke, Dietz, Berlin 1955-89, vol. 9, p. 225 (Die künftigen Ergebnisse der britischen Herrschaft in Indien).

Per Jefferson, Hoover e Rostow cfr. Domenico Losurdo. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma, 2008, pp. 196 e 288.
Franklin Delano Roosevelt, Four Freedoms Speech (6 gennaio 1941), in Richard Hofstadter-Beatrice Hofstadter, Great Issues in American History, Vintage Books, New York, 1982, pp. 386-91.